GRAN PREMIO DELLA GIURIA AL SUNDANCE E SCELTO DALLA BOLIVIA PER GLI OSCAR
UNA RIFLESSIONE SULLA GRADUALE DISTRUZIONE DELLA NATURA IN UN FILM PROFONDO E DI GRANDE IMPATTO VISIVO
Si vede quanto Alejandro Loayza Grisi, prima di debuttare alla regia di un film, abbia affinato l’occhio grazie ai documentari e, soprattutto, alla fotografia. Il suo sguardo, infatti, in una staticità che sfrutta la costanza per muoversi in avanti, racchiude il senso di un film che va elaborato e compreso un poco alla volta, dimenticandosi per un attimo dell’orologio. Ma non perché l’opera duri chissà quanto (appena 87 minuti), piuttosto perché Utama – Le terre dimenticate, è un film che fa del silenzio il protagonista principale. Un silenzio potente che si allarga verso i confini smisurati della Bolivia, consumata e inaridita da una crisi climatica che si fa sempre più feroce.
C’è tanta delicatezza nella regia di “Utama – Le terre dimenticate” e nei toni con cui racconta il lento addio alla vita del vecchio Virgilio.
É lentezza la parola chiave di questo film, che è un piccolo miracolo ai nostri tempi. La morte aleggia sul capo silenzioso di Virginio, che racconta al nipote la leggenda del condor che vola sulle montagne alte quando si sente mancare le forze, le stesse cime dove vanno gli abitanti del villaggio per far arrivare la pioggia.
Il film di Lojaza parla in modo estremamente poetico di cambiamento climatico, non a caso i paesaggi aridi ricordano molto quelli “Il sale della terra” del grande fotografo Sebastiao Salgado.
La colonna sonora stessa è il vento che soffia su quello che appare un deserto dall’alto insieme all’ansimare del vecchio Virginio. Tutto, anche la sua dipartita da questo mondo e dal suo corpo terreno, è all’insegna della natura rappresentata da una montagna di sassi, quelli che il vecchio regalava alla moglie.
“Utama – Le terre dimenticate” è un’opera da gustare lentamente. I protagonisti non sembrano neanche attori, per quanto sono veri con i loro visi induriti dal sole e gli abiti tradizionali. Non è la prima volta che i registi boliviani raccontano il loro paese e le tradizioni che rischiano di scomparire, e non c’è che dire, Lojaza ci riesce benissimo portando letteralmente lo spettatore in una dimensione quasi onirica alla Don Juan Matus di Castaneda con un volo d’aquila nel cielo azzurro.