GRAN PREMIO DELLA GIURIA | VENEZIA 71
The Look of Silence, seguito del documentario drammatico The Act of Killing, analizza ancora il tema del genocidio in Indonesia, le purghe anticomuniste del 1965, affrontandolo da un’altra prospettiva. The Look of Silence offre una visione della tragedia da parte delle vittime, in particolare segue la storia di un uomo sopravvissuto, il cui fratello è stato torturato fino alla morte durante la rivoluzione da un gruppo di ribelli; storia già raccontata dal punto di vista degli assassini nel documentario del regista The Act of Killing. In The Look of Silence si osserva la famiglia dell’uomo ucciso, in particolare il fratello minore, che decide di incontrare gli uomini che hanno massacrato uno di loro.
Il primo capolavoro del concorso è The Look of Silence di Joshua Hoppenheimer che, con il precedente The Act of Killing, costituisce un dittico inscindibile e sconvolgente.
Il filmaker danese-americano torna a illuminare il genocidio indonesiano – alla metà degli anni ’60 la dittatura militare sostenuta dal governo americano eliminò un milione di persone, tra presunti comunisti, cinesi e contadini – mettendosi stavolta dalla parte delle vittime. E se nel primo il motivo fondamentale era la colpa, o meglio la sua totale rimozione da parte dei carnefici tutt’ora rispettati e temuti, qui il tema è il perdono.
Hoppenheimer, che ha trascorso quasi dieci anni in una comunità di sopravvissuti fuori da Medan (a nord di Sumatra), stavolta segue Adi, fratello di una delle vittime della purga del ’65, e la sua famiglia: il padre ultracentenario ormai sordo, muto e incapace di camminare; la madre ottuagenaria che prega Dio perché si vendichi degli aguzzini di suo figlio; la moglie e i loro due bambini.
Adi, che non era ancora nato all’epoca dei fatti, vuole incontrare i massacratori del fratello e i loro parenti per capire che cosa li abbia spinti a commettere crimini così atroci e se nel frattempo sia affiorato in loro un barlume di pentimento. Chi ha visto The Act of Killing sa che di quest’ultimo non vi è traccia negli assassini – molti di loro sono anzi fieri di quello che hanno fatto o rigettano ogni responsabilità trincerandosi dietro il dovere di Stato – ma Adi, a cui pure Hoppenheimer mostra il suo precedente documentario, non si dà per vinto consapevole che solo il perdono può “liberare” lui e la famiglia dalla tormentata memoria del passato.
Il suo problema, che è poi il dilemma etico del film, è che non ci può essere perdono senza qualcuno che lo richieda, in assenza cioè di pentimento da parte del perdonato. La maggior parte dei massacratori non riconosce nelle loro gesta un crimine, dunque una colpa.
Il passato sembrerebbe così un maleficio impossibile da sciogliere, una catena che non si spezza e che incatena per sempre vittime e carnefici, come metaforicamente suggerisce l’immagine dei bachi da seta che non riescono a diventare farfalle. Di più, al coraggio di Adi si oppone la protervia degli assassini, alcuni dei quali non solo non si scompongono ma minacciano e alludono a possibili nuove purghe in futuro.
Tuttavia Oppenheimer giostra il confronto tra vittime e carnefici con un’abile e quasi spregiudicata partitura di primi piani, dai quali riesce a trarre un spicchio d’anima, un sussulto muto di verità. Ed è questa agnizione sotterranea e quasi impercettibile a riscattare moralmente l’operazione e a indicare una possibilità oltre la rimozione e l’oblio.
Il film, emozionalmente fortissimo come il precedente però più umano, increspato appena da una lieve velatura allegorica (Adi fa l’optometrista di mestiere), fissa lo “sguardo di silenzio” di vittime e carnefici ma non resta lì, indicando la parola che attende solo di essere pronunciata: perdono. (Cinematografo.it)