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La Sedia Della Felicità

castValerio Mastandrea, Isabella Ragonese, Giuseppe Battiston, Katia Ricciarelli, Raul Cremona, Marco Marzocca, Milena Vukotic, Roberto Citran, Mirco Artuso, Roberto Abbiati, Lucia Mascino, Natalino Balasso, Maria Paiato, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando, Antonio Albanese

Un tesoro nascosto in una sedia, un’estetista e un tatuatore che, dandogli la caccia, si innamorano, un misterioso prete che incombe su di loro come una minaccia. Dapprima rivali, poi alleati, i tre diventano protagonisti di una rocambolesca avventura che, tra equivoci e colpi di scena, li vedrà lanciati all’inseguimento dai colli alla pianura, dalla laguna veneta alle cime nevose delle Dolomiti, dove in una sperduta valle vivono un orso e due fratelli.

Critica:
“Quando Carlo Mazzacurati (scomparso il 22 gennaio scorso a 58 anni) ha girato questo film, l’estate scorsa, probabilmente sapeva che sarebbe stato il suo ultimo. La malattia che poi l’ha condannato aveva già dato segnali inequivocabili, nonostante la tenacia e il coraggio con cui il regista padovano l’aveva contrastata e la dedica «a Emilia e Marina» (cioè alla moglie e alla figlia) sono un’ulteriore prova della sua consapevolezza. Eppure ‘La sedia della felicità’ ha poco del «film testamentario», se non il fatto che ripercorre una serie di temi centrali nella sua carriera di regista (ma proprio per questo non certo nuovi). Piuttosto, possiede una leggerezza e una delicatezza, autoironiche e vagamente malinconiche, che conquistano e affascinano, e si rivelano come la vera, preziosa «eredità» che ha voluto lasciarci. Soprattutto rispetto a un cinema italiano che oggi appare spesso o troppo vacuo o troppo pretenzioso. Non è così per questo film che recupera lo spunto del romanzo russo ‘Le dodici sedie’ di Il’ja Il’f e Evgenij Petrov (già portato al cinema da Nicolas Gessner e Mel Brooks) e lo declina all’interno di quella provincia veneta che da sempre ha accompagnato la sua carriera cinematografica. Lo ammetteva volentieri anche lo stesso regista di sentirsi spaesato al di fuori di quel mondo e di quella cultura. E non è un caso che dopo un inizio «romano» abbia – caso abbastanza unico in Italia – abbandonato la capitale del cinema per tornare a stabilirsi nella sua Padova (così come è significativo che il suo film più sincero e per alcuni più riuscito, ‘Un’altra vita’ , racconti lo smarrimento di un non-eroe proprio di fronte alla scoperta del lato oscuro di Roma).Qui la «provincia» diventa una specie di atteggiamento mentale, un modo di vivere e di comportarsi che non ha bisogno delle tradizionali carrellate sulla campagna devastata dai capannoni industriali o sulle cartoline ricordo di angoli folcloristici. Si fa fatica a ritrovare Jesolo, da cui muovono i due protagonisti del film, o riconoscere i diversi luoghi delle loro peregrinazioni: la «provincia» di questo film è quella che stuzzica gli antropologi, quella dei modi di comportarsi, delle reazioni spesso fantasiose (e sempre divertenti) che ti mettono all’improvviso di fronte a un mondo che non avresti immaginato. (…) Il romanzo e le versioni cinematografiche precedenti giocavano molto del loro interesse sulle complicazioni della trama e della ricerca. Mazzacurati e i suoi cosceneggiatori, Doriana Leondeff e Marco Pettenello, puntano invece tutto sulle caratterizzazioni dei vari personaggi, specchi di un mondo «marginale» e «provinciale» (…) ma anche campioni di un’umanità sorprendentemente surreale, come i gemelli affidati a un doppio Antonio Albanese o i teleimbonitori Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio (piccoli, esilaranti camei di attori che avevano interpretato in passato i film di Mazzacurati). Ne esce un viaggio che è solo apparentemente una ricerca del Graal con sfumature gialle; in realtà è il ritratto di un mondo che dietro le stranezze e le ridicolaggini mostra la faccia malinconica e umanissima di un’Italia dimenticata o relegata ai margini e che, però, possiede una sua dolcezza e una sua tenerezza pur nella stranezza e nell’incongruenza. Mazzacurati, attraverso la fotografia di Luca Bigazzi e la fiducia del produttore Angelo Barbagallo, filma ogni situazione con la comprensione «renoiriana» di chi sa che tutti hanno le loro ragioni. E lo fa con una leggerezza di tocco contagiosa e soprattutto fiduciosa nelle persone. Ottenendo di regalarci una commedia che per simpatia e originalità esce finalmente fuori dai «soliti» schemi, e insieme ci lascia il ritratto di un mondo dove – come fanno i due protagonisti – si può vivere senza abdicare al proprio ottimismo e alla propria generosità.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 22 aprile 2014)

“Non c’è nulla che stia in piedi secondo un paradigma convenzionale di credibilità, di attendibilità, in ‘La sedia della felicità’. II film, leggero come una piuma e allegro come nessuno dei precedenti, con il quale Carlo Mazzacurati si è congedato prematuramente. (…) Il racconto si frammenta in mille deviazioni e derivazioni animate da una folla di personaggini che restano incisi nella memoria, dal mago Kasimir, squallido e volgare cialtrone (Raul Cremona) all’esotico fioraio del cimitero (Marco Marzocca). O il rozzo fornitore dei macchinari del negozio di Bruna (Natalino Balasso), con i dipendenti rumeni che , dice, ‘non sono abituati’ a contratto e contributi. O, ancora, la signora veggente (deliziosa Milena Vukotic) che il prete assatanato tormenta. In mezzo a questa folla si affacciano quasi tutti gli attori che hanno accompagnato la storia artistica di Carlo Mazzacurati. Roberto Citran (il pescivendolo incomprensibile), Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio e Silvio Orlando nei panni di due miserabili banditori di asta televisiva. Mazzacurati ha lasciato alcune parole introduttive allo spirito del suo film. ‘Volevo anche che l’umanità di questo racconto emergesse a volte attraverso le forme del grottesco a volte in toni più lirici, ma la cosa che più mi stava a cuore era di riuscire a tenere insieme il senso di catastrofe, in cui sembra che tutti stiamo cadendo, con l’energia e la voglia di riscatto che nonostante tutto si sente nell’aria’. Grazie per questa fiaba senza capo né coda, indicativa di un sentimento che ha permeato tutta l’opera di Mazzacurati: di viva preoccupazione e di appassionata partecipazione ai guai delle persone e del mondo, ma anche di incrollabile fiducia nelle risorse umane e soprattutto di quell’ umanità che più è sgomenta e poco attrezzata, che più è sospinta ai margini dei grandi movimenti della Storia.” (Paolo D’Agostini, ‘La Repubblica’, 22 aprile 2014)

“Una commedia svitata zeppa di figure strampalate e folgoranti. Uno sfrenato giallo comico, ispirato a un romanzo russo già usato fra gli altri da Mel Brooks. Ma soprattutto un’esilarante ‘summa’ del cinema di Carlo Mazzacurati, che dai tempi di ‘Notte italiana’, 1987, non ha mai smesso di cercare tesori nascosti nell’infinita provincia italiana. Crudele paradosso: il film più vitale della stagione lo ha fatto un regista scomparso nel frattempo. Che però qui trova una foga e insieme una grazia destinate a moltiplicare il divertimento e il rimpianto. La motivazione del Premio alla carriera assegnatogli dall’ultimo Festival di Torino parlava del suo amore per «i vizi e le intuizioni» di un popolo sempre più «confuso e disperato»: il nostro. Ma per Mazzacurati, qui più che mai, disperazione fa rima con azione. E i suoi personaggi non stanno mai fermi, come nelle grandi ‘screwball comedies’ anni 30. (….) maghi cialtroni, archiviste sadomaso, pescivendoli incomprensibili, anziane veggenti malate, banditori di aste tv, montanari pittori naif, quadri dipinti dai montanari naif, in un crescendo a cui partecipa con affetto mezzo cinema italiano (Albanese, Vukotic, Orlando, Bentivoglio, Citran…). Con una leggerezza che ignora la satira, palla al piede di tanti film nostrani, per rischiare la pura invenzione. Vedi l’epilogo, che insinua in tanta frenesia un brivido addirittura metafisico. Mai ‘testamento’ fu più scanzonato. E profetico, se davvero Mazzacurati voleva conciliare «il senso di catastrofe, verso cui tutti stiamo correndo, con l’energia e la voglia di riscatto che nonostante tutto si sente in Italia».” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 24 aprile 2014)