PALMA D’ORO | FESTIVAL DI CANNES 2014
L’attore in pensione Aydin possiede un piccolo hotel nel centro dell’Anatolia che gestisce insieme alla giovane moglie Nihal, emotivamente distante, e a sua sorella Necla, ancora sofferente per il recente divorzio. Durante l’inverno, la neve copre la steppa e la noia fa riemergere il risentimento, spingendo Aydin a partire.
Tra i luoghi comuni della critica cinematografica, ma anche letteraria, forse culturale in toto, è che la sintesi sia un pregio e la prolissità un difetto. No, se il “superfluo” con cui arricchisci l’essenziale è interessante quanto se non di più dell’essenziale stesso. Questa riflessione è fondamentale lungo le tre ore e un quarto di Winter Sleep, film di Nuri Bilge Ceylan (Le tre scimmie, C’era una volta in Anatolia) in concorso a Cannes 2014 e primo grande film presentato sulla Croisette quest’anno.
Ispirato a Cechov, il film racconta di un albergo in un paesino turco, dedito al turismo, ma che durante l’inverno “riposa”. Lo gestiscono un uomo, la moglie e la di lui sorella, che devono far fronte ai rancori e ai piccoli tormenti sopiti, ma anche ai problemi della città, ai loro vicini di casa e concittadini poveri contro l’agiatezza dei tre proprietari. Scritto da Ceylan con la moglie Ebru, Winter Sleep è un dramma da camera, teatrale nel senso migliore del termine ma anche capace, come il cinema di Farhadi, di scavare la superficie delle immagini attraverso le parole.
Ceylan usa qui il letargo e la bassa stagione come metafora dei fermenti che covano sotto la neve, i rancori sopiti che prima o poi possono prendere fuoco e li trasportia dal piano semplicemente umano e psicologico a quello sociale, descrivendo l’arroganza e il paternalismo borghese nei confronti altrui: ricchi o poveri, chiaramente, ma anche colti o ignoranti, uomini o donne (risultato forse del cambio politico della Turchia degli ultimi anni). Per farlo, il regista sceglie il modo più difficile e complesso, ovvero utilizza una sorta di metodo maieutico per far emergere i caratteri e i temi, attraverso dialoghi e conflitti sempre più esacerbati, calcando la durata per creare familiarità con i luoghi, i personaggi, l’atmosfera della sceneggiatura, per far sentire lo spettatore a proprio agio come in famiglia, nel calore domestico e poi chiuderlo in una specie di gabbia, solo mentale, ma per questo più forte.
Se Ceylan non parla direttamente della Turchia e delle sue condizioni, ne svela il sottotesto politico e culturale con afflato romanzesco, rivelando la differenza tra bellezza ed estetismo (che colpiva forse i suoi primi film meno maturi), fra virtuosismo e tecnica. Quella che padroneggiano perfettamente i suoi gli attori per fare emozionare, capeggiati da un meraviglioso Haluk Bilginer e dalla bellissima Melisa Sozen. (ilmucchio.it)