La musicista britannica PJ Harvey ha accompagnato più volte il fotografo irlandese Seamus Murphy nei suoi viaggi, in Afghanistan, Kosovo e a Washington DC. Dai suoi appunti ha tratto spunti per il disco “The Hope Six Demolition Project”, contenente 11 tracce, registrato in uno studio costruito appositamente a Londra e pubblicato nel 2016. Il film è l’unione delle parole e le note della Harvey e delle immagini di Murphy.
Cantante di culto fin dagli anni ’90, nota anche per le collaborazioni con Nick Cave e Thom Yorke, PJ Harvey è artista versatile: nel 1998 aveva recitato in The Book of Life di Hal Hartley.
Murphy riesce, senza farne un ritratto, a trasmettere lo sguardo che la musicista ha sul mondo e a raccontarne l’ispirazione e il processo creativo. Un qualcosa di difficile da rendere, senza essere didascalici, eppure il fotografo, alla prima regia, riesce magicamente a farlo. Si parte da Kabul, il luogo che ritorna più spesso nel film, con un bambino con il naso appoggiato al finestrino e un cinema distrutto. Poi la Harvey cammina per strada e, con la sua voce sottile, condivide alcuni pensieri sulla città. Sono appunti, materia per comporre poi le canzoni, e sono tra le poche parole di un film che coinvolge senza dare troppe spiegazioni.
Segue l’allestimento di uno studio di registrazione che, come per un’installazione, è fatto per dare al pubblico la possibilità di assistere alle incisioni attraverso una vetrata. È questo dispositivo che permetterà di fare come se tutte le persone incontrate nei viaggi fossero presenti e partecipanti nel momento della composizione e dell’esecuzione. Tra un brano e l’altro, ci sono le modifiche, i suggerimenti, le richieste di consigli, ma anche gli scherzi e i giochi di parole.
La musica accompagna e abbraccia, ma non è mai dominante, figurano tutti i pezzi del disco ma mai per intero o nella versione finale. A Dog Called Money, dal titolo di una delle canzoni, non ha quasi nulla di autobiografico, non è per niente autoreferenziale, ma restituisce la relazione che PJ Harvey instaura con i luoghi che visita, con le situazioni, le persone. C’è una Kabul insolita e affascinante, dove ci sono anche i militari, ma soprattutto tanti volti di persone comuni che lavorano o vivono la propria quotidianità. C’è la Washington della Casa Bianca, del Campidoglio e dell’obelisco, ma pure quella oltre il fiume Potomac: la città di chi non trova un lavoro o non vede un futuro e magari intona un rap che la cantante puntualmente registra, non la capitale del potere.
C’è il Kosovo con i monaci del monastero di Decani, le feste albanesi e i musicisti rom, ma si arriva ai migranti che premono in Grecia, a Idomeni, o a chi manifesta in Siria. Dall’altra parte un comizio a favore di Donald Trump e chi ne contesta l’elezione. Il tutto fluidamente alternato alle immagini dello studio della cantante al lavoro con i suoi musicisti: non un giudizio, per altro già implicito, su ciò che accade, ma come diventa spunto anche non palese della creatività della Harvey.
Un documentario che si colloca, e probabilmente non potrebbe essere diversamente date le sue collaborazioni passate, a metà tra Junun di Paul Thomas Anderson e Nick Cave – 20.000 Days on Earth con Nick Cave, senza averne magari la raffinatezza di concetto o di regia, ma con la capacità di cogliere una verità e restituirla allo spettatore. Murphy non si lascia condurre la musica e riesce a unirla alle immagini come se sgorgassero insieme e si unissero in un’emulsione: un balsamo per chi ama l’artista e non soltanto.