EVENTO SPECIALE FUORI CONCORSO AL 74. FESTIVAL DI CANNES (2021).
Un documentario tra i più emozionanti visti negli ultimi anni, in cui il regista di Bobbio racconta la figura di suo fratello gemello, Camillo, morto suicida a soli ventinove anni.La straordinarietà di questo film è la capacità del regista di riuscire a trasformare una storia tanto intima in una vicenda assolutamente universale, in cui ogni spettatore si trova a empatizzare e vivere un’esperienza come se si parlasse di una persona della propria famiglia.
RECENSIONE di Valerio Sammarco
“Ho sempre avuto la sensazione che il tuo fosse il cinema di un penitente. E vedendo i tuoi film mi sembrava di essere al di qua della grata del confessionale”.
È l’incontro chiave tra il gesuita Virgilio Fantuzzi (poi scomparso nel settembre 2019) e Marco Bellocchio, dialogo che il regista piacentino inserisce nel suo ultimo lavoro, Marx può aspettare, in Premiere al Festival di Cannes, edizione che quest’anno lo omaggia con la Palma d’Oro onoraria il giorno di chiusura, sabato 17 luglio.
Film-documentario che prende le mosse nel 2016, quando i cinque fratelli Bellocchio (quelli ancora in vita, di 8) si ritrovano con rispettivi figli e nipoti, per festeggiare varie ricorrenze.
Doveva essere una cosa, spiega la voce fuori campo del regista, alla fine diventerà altro, diventerà il film su un angelo, Camillo, fratello gemello di Marco, morto suicida a 29 anni nel dicembre del 1968.
Al di qua e al di là del confessionale: è un’immagine di rara potenza ed efficacia quella che regalano le parole in apparenza semplicissime di padre Fantuzzi.
Perché ripensando alla sterminata filmografia di Bellocchio, da I pugni in tasca (1965) in poi, attraverso titoli più autobiografici di altri (Salto nel vuoto, 1980, Gli occhi, la bocca, 1982, L’ora di religione – Il sorriso di mia madre, 2002, solamente per citarne alcuni), il regista di Bobbio ha sempre inserito riferimenti neanche troppo velati alla sua famiglia, al suo rapporto con la fede (da ateo), alle sue profonde convinzioni ideologiche e politiche (La Cina è vicina, 1967).
Come se ogni volta, attraverso il cinema, oltre che ragionare in maniera approfondita e complessa sulla storia e le derive del nostro paese, sul conformismo borghese e/o sulle storture del potere, cercasse con disperata lucidità di instaurare un dialogo con lo spettatore/confessore infilando elementi più intimi, privati, magari auspicando risposte a questioni impossibili da risolvere.
Quello che accade stavolta, con Marx può aspettare, non è altro che la plateale conferma di questo ragionamento, già a partire dal titolo: citando se stesso con la frase pronunciata da Lou Castel in Gli occhi, la bocca, che a sua volta citava una frase riferita da Camillo al fratello quando, poco prima di togliersi la vita, rispondeva così all’allora talento emergente del cinema italiano (neanche 30enne, già premiato a Locarno per I pugni in tasca e a Venezia per La Cina è vicina) che per spronarlo lo invitava ad impegnarsi nella lotta rivoluzionaria, a mettersi a servizio del popolo. “Marx può aspettare, mi disse, come a voler intendere che prima avrebbe dovuto affrontare altri problemi”.
Risolvere questioni che lo stavano dilaniando. Ma che nessuno, tra la madre e i fratelli, avevano intuito esistessero. Che quel dolore fosse così profondo.
È questa l’indagine personale e familiare che Bellocchio porta avanti e che restituisce senza pudori sullo schermo, a tu per tu con i suoi anziani fratelli (Piergiorgio, l’intellettuale, Alberto, il sindacalista, e le sorelle Maria Luisa e Letizia, quest’ultima sordomuta dalla nascita ma comunque in grado di sapersi esprimere, seppur con difficoltà): un memoriale che coinvolge anche i figli del regista, l’attore Pier Giorgio e la più giovane Elena, un botta e risposta tra i ricordi, a volte fumosi e insicuri, di parole e immagini (d’archivio, degli stessi film diretti da Bellocchio), accompagnate dallo splendido commento musicale del maestro Ezio Bosso, poi scomparso nel maggio 2020.
Un film di fantasmi e presenze, la materia di cui è fatto il cinema, per ritornare ad un momento tragico e cercare di cogliere eventuali responsabilità lì per lì neanche ipotizzate.
Per rintracciare l’origine di un malessere (le notti trascorse da Camillo nella stessa stanza del fratello maggiore, Paolo, malato di mente?, oppure il senso di fallimento dato dal non essere “intellettuale” come Piergiorgio o “di talento, famoso”, come Marco?) ben sapendo però che una risposta certa, ad un atto simile, è quasi sempre impossibile trovarla.
Un film a sua volta difficile da catalogare, da inscrivere in un filone, psico-autobiopic capace anche di slanci di tenera leggerezza che solamente un maestro come Marco Bellocchio (82 anni a novembre) sarebbe stato in grado di concepire, plasmare, restituire con questa profonda vitalità, senza cedere alle lusinghe di pietismi nostalgici o sentimentalismi a buon mercato.
Un film-testamento, per certi versi lacerante, realizzato da un regista che però è già proiettato sul suo prossimo lavoro.
Anzi due, la conclusione della serie tv Esterno notte (sorta di controcampo del suo Buongiorno, notte) e l’inizio della pre-produzione del film incentrato sul sequestro Mortara: perché la vita va avanti, seppur sfiorata spesso e volentieri dal passaggio di chi non c’è più.
Come suggerito dall’evocativo, poetico, magnifico finale di Marx può aspettare. Che guarda caso fa tornare alla mente quello di Buongiorno, notte.