Si esce come stregati dalla visione del film di (e con ) Amarsaikhan Baljinnyam, commossi dalla storia che racconta ma soprattutto affascinati da un mondo tanto lontano e misterioso
«Volevo che questo film fosse una lettera d’amore al patrimonio culturale mongolo» e l’ambizione non potrebbe essere stata meglio soddisfatta: si esce come stregati dalla visione di questo film, commossi dalla storia che racconta ma soprattutto affascinati da un mondo tanto lontano e misterioso.
Come il protagonista (interpretato dal regista esordiente), anche lo spettatore è invitato a compiere un viaggio: da anni trapiantato in città, Tulgaa viene chiamato al capezzale del padre, rimasto a vivere tra le remotissime colline della Mongolia, e lì decide di restare dopo la morte del genitore per portare a termine la falciatura dei campi.
L’amicizia con il piccolo Tuntuulei, che vive coi nonni mentre la madre lavora in città, aiuta a capire perché gli adulti vogliano fuggire dalla povertà delle campagne.
Ma la miseria e la fatica quotidiana finiscono per esaltare il fascino sottile di quel mondo così lontano e diverso, che la macchina da presa sembra accarezzare con i suoi lenti movimenti panoramici: qualcosa di magico e ipnotico, distante e magnetico, capace di farci scoprire un altro modo di vivere e di pensare.
Per chi vuole scoprire il fascino delle pianure mongole.