L’ultimo film della Trilogia della vita è anche quello dove forse si esprime più poeticamente il senso dell’utopia pasoliniana, evocando una dimensione popolare e fantastica dove il sesso è vissuto con libera spregiudicatezza in un passato magico, violento e intatto. Le scenografie di Dante Ferretti, i costumi di Danilo Donati, la fotografia di Giuseppe Ruzzolini, contribuiscono allo splendore figurativo di un film ispirato alle fiabe arabe e girato in Etiopia, Yemen, Iran e Nepal.
Che Le mille e una notte siano opera esotica e fiabesca è un luogo comune che io contesto. C’è del magico, è vero, ma non è quello che conta. Conta invece, soprattutto, il realismo. Sotto la crosta stereotipa, sotto la finta mancanza di interesse psicologico vive sempre, in quasi tutti i racconti, la realtà storica precisa, interamente connotata. Basta ricordare, per esempio, gli elenchi delle vivande di ogni pasto descritto. Menù ricostruiti fino alla pignoleria, elencazioni di oggetti e di ambienti nei minimi dettagli, capaci di restituire intero il senso esistenziale della vita quotidiana. E ancora, i fatti sociali: una vita di relazione con regole raffinate e complicatissime: ogni atto è documentato, si dà conto fin dei gesti dei personaggi, delle frasi rituali di saluto e commiato. Insomma, anche se il testo non enuncia esplicitamente problemi sociali, protagonista resta comunque la società osservata con un rigore quasi etnologico.
(Pier Paolo Pasolini, 1974)