PREMIO DELLA GIURIA AL 66° FESTIVAL DI CANNES (2013)
Trama:
Un giorno, Nonomiya Ryota, uomo ricco ed egoista, riceve una telefonata dall’ospedale in cui gli viene rivelato di non essere il padre biologico di suo figlio, un bambino di sei anni. Infatti, al momento della nascita il piccolo è stato scambiato nella culla con il figlio di un’altra coppia. Ryota e sua moglie, sconvolti dalla notizia, si troveranno di fronte a una difficile scelta: riprendersi il figlio biologico o continuare ad allevare il bambino che hanno cresciuto finora…
Critica:
“‘Father and Son’ è il film che ha conquistato il cuore di Steven Spielberg, che a Cannes lo ha premiato e ha deciso di farne un remake americano (…). Diretto dal giapponese Hirokazu Kore-eda, il film si interroga con tenerezza e commozione sul senso di essere genitore e su cosa renda davvero padre un uomo, se la condivisione del dna o il tempo dedicato al proprio figlio.” (Alessandra De Luca, ‘Avvenire’, 4 aprile 2014)
“Premio della giuria capitanata da Spielberg a Cannes 2013, ‘Father & Son’ del cinquantenne giapponese Kore-eda Hirokazu rilancia lo stesso tema che aveva già commosso l’anno prima nel film franco-israeliano ‘Il figlio dell’altra’. Lo scambio di neonati nella nursery di un ospedale scoperto ad anni di distanza. Sei anni nel film giapponese, molti di più nell’altro dove però si aggiungeva un secondo motivo: le due famiglie erano una arabo-palestinese e l’altra ebrea-israeliana. Qui la differenza è di status sociale, che in parte si rispecchia nel contrasto tra la freddezza del padre più ricco, architetto, e il calore di quello più povero, venditore di materiale elettrico; ma senza eccessi di semplificazione. E il nodo che sconvolge le vite dei genitori risiede nel dilemma tra legame di sangue ed effettiva esperienza, acquisito patrimonio affettivo. Il confronto, condotto attraverso le cerimoniose consuetudini giapponesi, porta alla luce e attraversa tutte le sfumature possibili. E’ un bel film, forse un po’sopravvalutato.” (Paolo D’Agostini, ‘la Repubblica’, 3 aprile 2014)
“Con un soggetto simile in America avrebbero fatto un film sullo scontro tra culture e sarebbero volate pallottole, in Italia una commedia con Fabio De Luigi e Luca Argentero, in Francia una storia cupa di sesso e ricatti. Per fortuna invece ‘Father and Son’ lo ha girato il giapponese Hirokazu Kore-eda, 51 anni («e padre da 5», tiene a precisare), aficionado dei grandi festival ma poco noto in Italia, che con questo film limpido solo in apparenza ha conquistato un premio a Cannes. E sedotto il presidente della giuria, Steven Spielberg, pronto a acquistarne i diritti per un remake. Fatica sprecata. ‘Father and Son’ è perfetto così. Perché Kore-eda proietta l’eterna favola del figlio scambiato in un paese lontanissimo dal nostro per educazione, cultura, senso del decoro e delle regole sociali. Ma proprio per questo capace di svelare i sentimenti più segreti, scavando sotto le apparenze, con una tenacia e insieme una dolcezza che cercheremmo invano in un film statunitense o europeo. Un esempio di ciò che il cinema giapponese, e più in generale asiatico (pensiamo al coreano ‘Poetry’, o all’hongkonghese ‘A Simple Life’), ha sempre fatto meglio di quello occidentale. E non solo per la delicatezza del tocco, che riconduce i conflitti più laceranti nella cornice delle buone maniere, ma per la precisione chirurgica delle inquadrature. Da sempre attento ai bambini, che dirige meravigliosamente, e al loro punto di vista, stavolta infatti Kore-eda cambia ottica per raccontare tutto con gli occhi dei padri (del primo in particolare, che ha il percorso più accidentato). Salvo ribaltare di colpo la prospettiva con la scena, semplicissima e geniale, in cui il padre scopre le foto fattegli dal figlio mentre dormiva. Difficile essere più semplici e profondi insieme. Come tutto questo film, che non smette di porre la stessa domanda, piccola e immensa: quando è, di preciso, che si diventa padri?” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’, 3 aprile 2014)
“‘Father and Son’ affronta l’ardua questione se la paternità sia un fatto di sangue, narrando di due famiglie che, per uno scambio di neonati in ospedale, scoprono di aver allevato il figlioletto sbagliato. Che fare? (…) A riprova che quella giapponese è una società patriarcale, le figure delle pur trepidanti madri restano sullo sfondo; il vero protagonista della commedia agrodolce di Kore-eda Hirokazu, regista di risaputa finezza formale, è Ryota, il cui cuore solo alla fine si schiuderà alla consapevolezza del valore di un rapporto paterno costruito sull’amore invece che sul Dna. La sua è una trasformazione troppo repentina per essere convincente, e tuttavia gratifica la nostra voglia di tenerezza.” (Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’, 3 aprile 2014)
“Un film giapponese, premio della giuria a Cannes, che non è perfettamente riuscito, ma avvalora la sua composizione grazie alla pudica sensibilità con cui affronta l’antica tematica del dubbio su cosa conti di più, per un figlio, tra i legami di sangue e quelli instaurati da coloro che l’hanno allevato. ‘Father and Son’, firmato dal cinquantunenne regista Hirokazu Kore-eda fattosi notare all’estero grazie a ‘Still Walking’ (2008), parte dal momento in cui un architetto benestante viene convocato all’ospedale dove sua moglie aveva dato alla luce il figlioletto oggi seienne (…). La caratteristica dello sviluppo successivo è quella di un controllo (fin troppo) assoluto delle emozioni e dei rispettivi rovelli e dell’insistenza con cui è evidenziata dal pedinamento quasi neorealistico della macchina da presa, la contrapposizione ambientale prim’ancora che mentale tra i due nuclei domestici. Detto questo, è impossibile fare a meno di notare l’eccessiva lentezza del ritmo con cui s’esplorano gli eventi e la stereotipia con cui vengono spiegati il percorso narrativo e l’incidenza dei pochi fatti concreti. Va bene ottenere il plauso dei festival, ma qualche guizzo in più non sarebbe dispiaciuto agli spettatori meno specialisti.” (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’, 3 aprile 2014)
“(…) il nuovo lavoro di uno dei principali registi giapponesi contemporanei. Hirokazu Kore-eda ha 52 anni e una carriera ormai consolidata, che lo porta regolarmente in concorso ai principali festival internazionali. Secondo noi ha firmato il suo capolavoro nel 1998: ‘Dopo la vita’, una delle più originali e «laiche» visioni dell’Aldilà mai viste al cinema. ‘Father and Son’, di originale, non ha nulla: parte da un’idea raccontata mille volte, lo scambio di due bambini in culla. Una famiglia alto-borghese, con padre ‘ drogato’ di lavoro e successo, riceve un’inquietante telefonata dall’ospedale: il figlio che hanno cresciuto non è loro, ma di una famiglia proletaria; c’è stato un errore e i destini si sono rovesciati. L’incontro tra le due famiglie, ovviamente tragicomico, viene messo in scena con toni fin troppo sommessi. I due bambini sono piccoli (mentre nel francese ‘Il figlio dell’altra’, dove le famiglie erano una israeliana e una palestinese, il fattaccio accadeva a due ventenni) e quindi ‘Father and Son’ finisce per raccontare la crisi esistenziale del padre ricco, cosa di cui ci importa – diciamolo – fino a un certo punto. Film non brutto, molto stilizzato, piuttosto noioso. Molto «d’autore», certo. Il suddetto ‘Il figlio dell’altra’, della francese Lorraine Levy, non lo era: infatti era molto migliore.” (Alberto Crespi, ‘L’Unità’, 3 aprile 2014)
“A partire da quale momento esatto un padre diventa realmente un padre? È la domanda che si pone ‘Sochite Chichi Ni Naru’ (in Italia esce sotto il titolo ‘Father and Son’), del regista giapponese Hirokazu Kore-eda (…). Hirokazu Kore-eda torna al tema dei legami famigliari che aveva già esplorato nel bellissimo ‘Nessuno sa’ (quattro bambini soli in un appartamento di Tokio, abbandonati dalla madre) e in ‘Still Walking’ (una famiglia alle prese con la morte di un figlio) con un quadro (forse persino troppo) simmetrico che contrappone classi sociali, scale di valori, personalità, età adulta e infanzia. La struttura minimalista della sua narrazione, la luminosa nitidezza delle sue immagini si adattano naturalmente a questo gioco di opposti. (…) anche in film tenutissimi come questo, ogni tanto, le simmetrie saltano.” (Giulia D’Agnolo Vallan, ‘Il Manifesto’, 3 aprile 2014)
“Architetto cool, Ryota ha una famiglia da Mulino Bianco, una Lexus in garage e un appartamento da catalogo di design. Tutto bene, finché la bella mogliettina non riceve una telefonata dall’ospedale dove aveva partorito: Keita, 6 anni, non è il loro figlio. C’è stato uno scambio, e quello naturale è finito in una famiglia modesta in tutto e per tutto, tranne che nei sentimenti. Keita o non Keita, questo è il dilemma di Ryota, perché, ci dice il regista giapponese Kore-eda Hirokazu, chi è tuo figlio, quello che fai o quello che cresci? Domanda da ko emotivo servita superbamente in Concorso all’ultimo festival di Cannes, dove ‘Father and Son’ ha incassato il premio della Giuria (e pare perfino poco): paternità biologica e paternità educativa/affettiva a duettare, risate e lacrime generose, regia intima e recitazione empatica, le scorciatoie vengono buttate nel fuoricampo. Già, ‘tale padre, tale figlio’ recita l’adagio, ma che significa davvero? Risponde un dramedy che è un capolavoro di scrittura, un peana alla nostra fragilità e la deliziosa conferma che il cinema non può cambiare il mondo, ma può cambiare l’uomo. Da vedere, meditare e godere: senza se e senza ma.” (Federico Pontiggia, ‘Il Fatto Quotidiano’, 3 aprile 2014)
“Piacerà a chi magari pensando di trovarsi uno dei soliti aneddoti da TV del pomeriggio, scoprirà con sorpresa un’opera bella e significativa da seguire come un thriller fino alla fine. Come è successo agli spettatori di Cannes 2013 (entrati coll’intenzione di ‘tagliare’ dopo mezz’ora sono rimasti inchiodati alla poltrona fino al centoventesimo minuto).” (Giorgio Carbone, ‘Libero’, 3 aprile 2014)
“Un tema non nuovo, ma elaborato con sensibilità, tenerezza ed emotività coinvolgenti. Perfetto, tutto il cast.” (Maurizio Acerbi, ‘Il Giornale’, 3 aprile 2014)
“Ryota era già stato il nome del protagonista di un altro film di Kore-eda, ‘Aruitemo aruitemo’ (conosciuto anche col titolo internazionale ‘Still Walking’, ma sfortunatamente mai distribuito in Italia), dove l’uomo presentava la sua giovane sposa ai genitori ma si dimostrava incapace di avere un reale rapporto col proprio padre. Adesso il regista ha deciso di chiamare così anche il protagonista di ‘Father and Son’ (ma perché inventarsi un ingiustificato titolo inglese per un film giapponese? La traduzione dell’originale ‘Soshite chichi ni naru’ è ‘Tale padre tale figlio’) come se ci fosse la voglia di sottolineare una continuità tematica – gli ultimi film del regista giapponese ruotano attorno al tema della famiglia – ma anche la presenza, attraverso lo stesso nome, degli stessi problemi e degli stessi nodi affettivi. Al centro del film, però, non c’è più, come in ‘Still Walking’, il figlio bloccato nella propria capacità di affetto (e di comunicazione) ma piuttosto il genitore, messo di fronte a una scelta radicale: che cosa conta di più per lui, il legame affettivo o quello di sangue? (…) Nel film la causa dello scambio è la «vendetta di classe» di una infermiera (che volle offrire al figlio della famiglia meno ricca la possibilità di una vita migliore) ma nella realtà del Giappone è un fatto che a cavallo degli anni Settanta era avvenuto almeno una quarantina di volte. E ai genitori del film il regista (autore anche della sceneggiatura e del montaggio) pone la stessa domanda cui avevano dovuto rispondere i genitori della realtà: che legame privilegiare, quello del sangue o quello degli affetti? Difensore di uno stile controllato e classico, dove i movimenti di macchina sono ridotti all’essenziale e la recitazione è tutta indirizzata verso un mimetismo realistico (ma senza scivolare nel ricatto lacrimoso), Kore-eda sceglie a questo punto della storia un approccio il più possibile controllato. Evita le facili scene madri, riduce al minimo le spiegazioni e le discussioni (tra i coniugi, con i responsabili dell’ospedale, tra gli avvocati) e affida alla messa in scena il compito di spiegare quello che avviene nella testa e nel cuore delle persone. Da una parte la casa elegante e senza una cosa fuori posto di Ryota, la sua vita quotidiana scandita dagli impegni e dal doverismo; dall’altra la confusione di Yudai, il suo «tirar a campare» ma anche la sua disponibilità verso i figli. Uno abita nel centro di Tokyo, in un appartamento ai piani alti di un silenzioso e anonimo condominio; l’altro ha casa e bottega aperta sulla strada, in una periferia popolare e rumorosa. Kore-eda si guarda bene dal far pendere la sua simpatia per l’una o per l’altra delle due famiglie. L’autocontrollo e il decisionismo di Ryota sono bilanciati dall’opportunismo e dalla faciloneria di Yudai. E i due bambini, che a un certo punto del film cominciano a passare i weekend ognuno nella casa dei genitori di sangue, sono affascinati e intimoriti allo stesso modo, attratti da una situazione diversa da quella in cui erano cresciuti ma impauriti da un «cambio di affetti» che la cultura giapponese sembra accettare con più facilità (il sangue verrebbe prima di tutto) di quanto non vediamo invece succedere nel cuore dei due piccoli. Per non parlare delle conseguenze nei comportamenti dei quattro adulti, con le madri più disposte dei padri a fare i conti con i «ricatti» degli affetti. Tutto questo Kore-eda lo filma con una delicatezza e una sensibilità rare e toccanti, ribadite dall’utilizzo delle ‘Variazioni Goldberg’ in colonna sonora: non vuole parteggiare per nessuna famiglia e per nessuna scelta, gli interessa solo smontare i meccanismi che spesso spingono a privilegiare una soluzione invece che l’altra. E soprattutto spostare l’attenzione su chi probabilmente soffre di più epperò ha minor voce in capito: i piccoli bambini che, in un caso o nell’altro, pagheranno delle colpe di cui non hanno responsabilità.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 31 marzo 2014
“Contano più i legami di sangue o i legami affettivi, quand’è che un padre diventa veramente tale, è il legame di sangue con il figlio che fa un padre o è il tempo che questi passa con lui? È nato da tutte queste domande, e da altre ancora, il film del regista giapponese Hirokazu Kore-Eda, intitolato ‘Tale padre, tale figlio’, (…). Su una trama non nuova (dello stesso argomento parlava il film ‘Il figlio dell’altra’), il lavoro di Kore-Eda si segnala però per la tenerezza del suo sguardo verso i due piccoli protagonisti, inconsapevoli di essere al centro di una vicenda che corre il rischio di avere conseguenze più gravi di quelle previste. E, allo stesso tempo, delinea bene il percorso di presa di coscienza dei genitori, soprattutto di Ryota, dei limiti e della vera portata del proprio ruolo di padre.” (Andrea Frambosi, ‘L’Eco di Bergamo’, 19 maggio 2013)