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Eisenstein in Messico

castElmer Bäck, Luis Alberti, Maya Zapata, Rasmus Slätis, Jakob Öhrman

The venerated filmmaker Eisenstein is comparable in talent, insight and wisdom, with the likes of Shakespeare or Beethoven; there are few – if any – directors who can be elevated to such heights. On the back of his revolutionary film Battleship Potemkin, he was celebrated around the world, and invited to the US. Ultimately rejected by Hollywood and maliciously maligned by conservative Americans, Eisenstein traveled to Mexico in 1931 to consider a film privately funded by American pro-Communist sympathizers, headed by the American writer Upton Sinclair. Eisenstein’s sensual Mexican experience appears to have been pivotal in his life and film career – a significant hinge between the early successes of Strike, Battleship Potemkin, and October, which made him a world-renowned figure, and his hesitant later career with Alexander Nevsky, Ivan the Terrible and The Boyar’s Plot.
– Written by Peter Greenaway

1931. Sergej Ejzenstejn si trova al vertice della sua carriera artistica. Decide di recarsi in Messico dove girerà Que Viva Mexico! con cui intende celebrare la rivoluzione del 1911 che sente come la più vicina a quella russa. Da poco respinto dal cinema hollywoodiano e con il regime sovietico che vorrebbe un suo rapido rientro in patria, Eisenstein raggiunge la città di Guanajuato. A fargli da accompagnatore è Palomino Cañedo grazie al quale scoprirà molte cose sul Messico ma anche su se stesso e sulla propria sessualità. Saranno dieci giorni che cambieranno per sempre la sua vita.
Peter Greenaway/Sergei Ejzenstejn. Un binomio che prima o poi doveva farsi cinema. Uno stralcio da una lunga dichiarazione d’amore del regista britannico per il collega sovietico può chiarirlo con grande efficacia: (il suo è) “un cinema-cinema finalmente non più schiavo di una narrative prosaica, saltellante e in continuo movimento con il serio proposito di correre come corre l’immaginazione degli esseri umani, producendo associazioni tra passato, presente e futuro, vecchio e nuovo, entrambi i lati del muro – come il Cubismo – che tanto influenzò l’avanguardia contemporanea russa nella pittura”.
La folgorazione di Greenaway risale al 1959. Questo film si presenta quindi come il frutto di una profonda maturazione del suo pensiero e della sua ricerca sull’artista ma anche sull’uomo. Un uomo timoroso della propria sessualità e incapace di fissarla nel proprio intimo come invece è capace di dare forma a ciò che il suo occhio coglie nella realtà che sa trasfigurare in Arte. Nella miriade di immagini e di soluzioni di montaggio che Greenaway ci propone (sapendo però anche fermarsi a contemplare la scena quando si rende necessario, a differenza di quanto talvolta è accaduto nel passato) ce n’è una che offre una possibile chiave di lettura del film. La Chiesa centrale di Guanajuato si avvale di un insolito campanaro. Vestito come gli antichi nativi può suonare direttamente sul campanile, essendo sordo e cieco. Sergei è a sua volta sordo e cieco nei confronti della propria omosessualità e sarà Palomino, che ha moglie e figli, ad iniziarlo sia su questo versante che su quello del rapporto con una Morte che ha spesso descritto con straordinaria forza nei propri film ma di cui non ha mai saputo (o forse voluto) cogliere il profondo legame con il sesso.
Come affermava Herman Hesse: “L’espressione della grande sofferenza del volto umano è più violenta e sfigurante che l’espressione di un grande godimento… ma in fondo non è diversa”. In quei dieci giorni messicani Ejzenstejn imparerà tutto ciò mentre sta impressionando chilometri di pellicola per un film che non vedrà mai la luce di un proiettore. Così come il suo essere gay, mascherato con due matrimoni mai consumati, in una Russia che (allora come oggi con ordinamenti politici mutati) fa dell’omofobia una sua bandiera. (mymovies.it)