In una provincia del Nord Italia, alla vigilia delle feste di Natale, sullo sfondo di un misterioso incidente, si incrociano le vicende dell’ambizioso immobiliarista Dino Ossola, di una donna ricca e infelice che desidera una vita diversa e di una ragazza, sottomessa ai voleri del padre, che sogna un amore vero.
Critica:
“L’anno comincia con un evento felice per il cinema italiano, il nuovo film, ‘Il capitale umano’ che un autore come Paolo Virzì si è scritto insieme con i suoi due fidi sceneggiatori, Francesco Bruni e Francesco Piccolo, già coronati da molti successi, e con la partecipazione di alcuni fra i più noti e validi interpreti del nostro cinema, da Valeria Bruni Tedeschi, a Fabrizio Gifuni, a Fabrizio Bentivoglio, a Valeria Golino, a Luigi Lo Cascio. Il clima scelto è quello del noir suggerito a Virzì da un romanzo americano di Stephen Amidon che poi, con trovata intelligente, ha ambientato in una zona montuosa della nostra Lombardia, la Brianza, scegliendo tra i personaggi principali soprattutto grandi imprenditori tutti votati, al culto, spesso affannoso, del denaro. Tre capitoli sempre intitolati ai personaggi che ci faranno seguire da vicino lo svolgersi della vicenda. (…) Con un disegno fine e attento delle singole psicologie, analizzando, insieme con quelle degli adulti quelle dei giovani che, tra alcol e droga, non tardano a rivelarsi non molto diversi dai loro genitori. Con tensioni, risvolti drammatici, contrasti e sorprese che propongono sempre l’azione in cifre ansiose e dolenti, specie quando ci si imbatte nella desolante povertà del ‘capitale umano’ di tutta quella gente. Vi danno magnifico rilievo Fabrizio Gifuni, un rigido Giovanni, Fabrizio Bentivoglio, il viscido Dino. In primo piano, tra le figure femminili, Valeria Bruni Tedeschi, una Carla di forte e complessa intensità.” (Gian Luigi Rondi, ‘Il Tempo – Roma’, 2 gennaio 2014)
“Con questo film – il suo undicesimo lungometraggio – Paolo Virzì sembra voler imprimere una svolta al suo modo di fare cinema, una svolta che allenta i «legami» con la forma-commedia a favore di una più complessa struttura narrativa e una più equilibrata lettura psicologica. A favorirlo è il romanzo di Stephen Amidon il cui titolo resta invariato anche per il film, ‘Il capitale umano’, e di cui rispetta la complessità temporale ma non l’ambientazione (dal Connecticut alla Brianza) scrivendo la sceneggiatura con Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Non un passaggio al dramma tout court ma un’evoluzione dal genere in cui si era esercitato fino a ieri verso una narrazione più complessa e ambiziosa. Bisogna però aggiungere, per evitare ambiguità, che Virzì non perde la sua capacità di graffiare attraverso l’ironia – come dimostrano alcuni personaggi, su tutti quello del critico teatrale Russomanno affidato a Luigi Lo Cascio – e soprattutto affina la capacità di ottenere il meglio dai suoi attori, come dimostra per esempio Fabrizio Gifuni che dà qui la sua prova migliore, convincente e intensa, oppure trasformando i supposti limiti in qualità, come fa con Valeria Bruni Tedeschi, davvero ammirevole (e non è la prima volta che gli riesce con un’attrice. Come dimostra Nicoletta Braschi in ‘Ovosodo’ o Monica Bellucci in ‘N – Io e Napoleone’). Per non parlare dei giovani, esordienti o quasi, tutti ottimi. Dove convince meno è quando sottolinea le inflessioni lombarde – da baùscia vanziniano, alla Nicheli – nel personaggio affidato a Fabrizio Bentivoglio: il suo Dino Ossola, piccolo agente immobiliare convinto di poter fare il colpo della vita grazie alla familiarità col finanziere Bernaschi (Gifuni), si comporta – specie all’inizio del film – come fosse in una commedia ridanciana, inanellando sbruffonate e ostentando urticanti familiarità. Probabilmente al regista serviva per rimarcare ancora di più il cambio di passo che si sarebbe consumato durante il film, dal sorriso al cinismo, ma forse non ha tenuto conto di come un’eccessiva caratterizzazione regionale rischiasse di scivolare verso la farsa. Gli exploit lombardi, comunque, passano in secondo piano quando i vari personaggi del film iniziano a essere coinvolti nella tela gialla che ha steso il caso (…). Tutta questa materia, Virzì la racconta da tre punti di vista, così che gli stessi fatti trovino spiegazioni e informazioni diverse. Ma più che la soluzione del giallo (che pure arriverà alla fine) gli interessa la descrizione di un mondo che, come dice la moglie di Bernaschi, «ha scommesso sulla sconfitta dell’Italia. E ha vinto». Mai come in questo film, lo scontro generazionale tra genitori e figli è così netto e deciso: l’età non è un discrimine di bontà o cattiveria ma di responsabilità. Soprattutto i padri (veri o «putativi», come quello di Luca) sono lo specchio di un Paese che ha tradito qualsiasi ideale in nome del denaro e le cui azioni finiscono inevitabilmente per far sentire le proprie conseguenze sugli altri membri della famiglia: con un maggior grado di corresponsabilità sulla moglie, con effetti più distruttivi sui figli. ‘Il capitale umano’ questo quadro lo racconta con forza e durezza, senza concedere facili sconti a nessuno (…) e con un acre senso di beneaugurante moralità, soprattutto dopo l’eccesso natalizio di commediole assolutorie e pacificatrici. Qui alla fine tutti escono sconfitti, anche quelli che sembrano convinti di aver vinto, lasciando allo spettatore il compito di riflettere sui valori per cui vale davvero la pena di combattere.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’, 6 gennaio 2014)
“Paolo Virzì ha cambiato passo. Come se fino a ieri avesse guidato una macchina di cui non conosceva il pulsante segreto, quello del decollo. Ora che può anche volare è pronto per il giro del mondo. Si è trasformato in un viaggiatore esperto di sentieri, un entomologo che raccoglie dettagli eli cataloga. È andato in Brianza a raccontare com’è cambiata l’Italia, lo ha fatto come se partisse per l’Alaska: vergine la curiosità, controllata l’apprensione, sottolineate cento volte le guide. Ha messo in valigia i suoi attrezzi da sarto di storie (il filo dell’ironia, questa volta meno dolce del solito, beffarda e un po’ crudele persino, le stoffe pesanti per il freddo che c’è dentro casa e anche fuori, su al Nord, le sete per le sere di festa, le lamette per la disperazione, l’alcol per non pensarci, uno zainetto e una tuta per scappare, caso mai) e come un esploratore si è addentrato di soppiatto nella terra dei ricchi. Di quelli che ‘hanno scommesso sulla rovina del nostro paese, e hanno vinto’. Gli speculatori, i maghi della finanza, quelli che ti promettono di guadagnare il 40 per cento sui tuoi risparmi e che poi se li mangiano, con la tua vita intera. Quelli che calcolano con un algoritmo quanto costa la tua morte, il ‘capitale umano’ del titolo: il risarcimento agli eredi per l’assenza. Il film è bellissimo, il suo migliore. Potente, lieve, preciso. È un congegno che funziona come l’ingranaggio di un orologio, ogni ruota gira in un verso diverso e tutte insieme battono il tocco delle ore. Non è una commedia ma è anche quello, non è un thriller ma un po’ sì, non è un racconto a tesi ma un caleidoscopio di sguardi che tiene insieme i punti di vista senza dare lezioni. Senza quel tono di sufficienza e di distacco che confina col disprezzo e balla il mambo fatalista del qualunquismo. Dirige un gruppo di attori eccezionali rendendo ciascuno di loro, se ancora possibile, una sorpresa. Giovanni Bernaschi è un finanziere di quelli che fra mezz’ora hanno un volo per Londra, vive in una villa con due rampe di scale all’ingresso i campi da tennis e una piscina riscaldata nel sotterraneo, ha una moglie bellissima ex attrice, un figlio adolescente che va alla scuola privata e tiene il suv in garage. Fabrizio Gifuni lo incarna con torva esattezza di sguardi, padronale volgarità di gesti tuttavia sempre eleganti, mai caricaturale, millimetrico nel passo brutale e segretamente consapevole della disperazione di chi, ormai, non può tornare indietro. È, Gifuni-Bernaschi, il motore mobile, la causa e la ragione di ogni cosa. Della rovina dell’Italia, appunto, su cui il suo fondo ha puntato. Fabrizio Bentivoglio è Dino Ossola, un immobiliarista sull’orlo della rovina la cui figlia è fidanzata con il figlio di Bernaschi. Ha perciò accesso alla villa, alla vita dei ricchi, ai loro doppi di tennis. Decide di investire 700 mila euro che non ha, facendoseli prestare, nel fondo miracoloso. Qui Bentivoglio abbandona il consueto charme distratto e inventa una figura patetica e tragicamente ordinaria, l’uomo in bilico sulla disfatta: è suo il primo dei tre sguardi sulla scena. La storia avviene alla vigilia di Natale in un piccolo paese della Brianza. C’è una cena di gala, c’è un incidente – il cameriere della cena che torna a casa in bici, investito da un Suv – c’è un colpevole ignoto. (…) Affresco polifonico e corale, riscrittura del romanzo di Stephen Amidon affidata a Francesco Piccolo e Francesco Bruni, insieme allo stesso Virzì. L’America è qui, in Brianza. Le donne conoscono la vita meglio degli uomini, la maneggiano più disinvolte; i giovani – vere vittime di questo tempo cieco – soccombono alle aspettative dei padri, infragiliti dal lusso o dall’assenza di speranza; i più poveri di mezzi sanno essere più generosi di sé e lungimiranti, sempre. In assenza assoluta di retorica, sono semplici annotazioni sul taccuino di chi osserva. Tocco di maestria le musiche di Carlo Virzì, percussioni etniche che danno al thriller il sapore di un viaggio altrove: tamburi per l’esplorazione, appunto, di una terra remota pericolosa e onnivora, la terra che ci sta mangiando. Si resta a lungo, nei giorni successivi, in compagnia dei volti e delle parole di Gifuni e Bruni Tedeschi, i più sorprendenti di un cast superbo. Lei: ‘Avete scommesso sulla rovina del nostro paese e avete vinto’. Lui: ‘Abbiamo vinto, amore. Abbiamo. Ci sei anche tu’.” (Concia De Gregorio, ‘la Repubblica’, 9 gennaio 2014)